Scoperte popolazioni cellulari
associate alla malattia di Alzheimer
GIOVANNI
ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 24 giugno
2023.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La malattia di Alzheimer, ossia la demenza
neurodegenerativa più grave e diffusa al mondo, è intensamente studiata soprattutto
per ciò che concerne la sua patogenesi molecolare, mentre il ruolo dei diversi
tipi cellulari e i processi di interazione che si verificano fra queste cellule
sono meno conosciuti e, nel loro insieme, sono considerati un problema
complesso, aperto e, per molti aspetti, ancora dibattuto.
Anche se i processi che portano alla formazione e
all’accumulo dei peptidi β-amiloidi di 42-43 aminoacidi, alla degenerazione
neurofibrillare intraneuronica dall’appaiamento di filamenti di tau iper-fosforilata
e alla diffusione simil-prionica delle proteine mal-conformate sono ben noti,
rimangono ancora molti interrogativi su aspetti della progressione del processo
patologico neurodegenerativo e sulle differenze individuali di decorso e
prognosi. Si è ipotizzato, al riguardo, che una conoscenza analitica dei microambienti
cellulari sottostanti la neuropatologia della malattia di Alzheimer nelle
sue varie fasi e lo sviluppo di demenza da altre cause, potrebbe facilitare la
soluzione dei tanti problemi ancora irrisolti.
Seguendo questa ipotesi, Anael
Cain e numerosi colleghi coordinati da Philip L. De Jager hanno realizzato una mappa cellulare ad alta
risoluzione della corteccia cerebrale in corso di invecchiamento, per inferire
l’architettura cellulare del cervello in un campione di 638 individui profilati
mediante il sequenziamento RNA. I ricercatori hanno scoperto popolazioni
cellulari associate alla malattia di Alzheimer e hanno identificato una rete di
comunità multicellulari, due delle quali chiaramente alterate nella patologia
neurodegenerativa.
(Cain
A., et al., Multicellular communities are perturbed in the aging human
brain and Alzheimer’s disease. Nature Neuroscience – Epub ahead
of print doi: 10.1038/s41593-023-01356-x, June 19, 2023).
La provenienza degli autori è la seguente: Edmond & Lily Safra
Center for Brain Sciences, The Hebrew University of Jerusalem, Jerusalem (Israele); Center for Translational & Computational
Immunology, Department of Neurology and Taub Institute for Research on Alzheimer’s
Disease and the Aging Brain, Columbia University Irving Medical Center, New
York (USA); Klarman Cell Observatory, Broad Institute of MIT and Harvard,
Cambridge, MA (USA); Department of Clinical Biochemistry and Pharmacology,
Faculty of Health Sciences, Ben-Gurion University of the Negev, Beer-Sheva (Israele); Department of Biology, Koch Institute of
Integrative Cancer Research, Massachusetts Institute of Technology, Cambridge,
MA (USA).
Come abbiamo fatto la settimana scorsa[1], per
introdurre il lettore non specialista alla malattia di Alzheimer e proporre
alcuni importanti risultati della ricerca su questa patologia neurodegenerativa,
attingiamo a un nostro articolo dello scorso anno[2].
Si riporta lo storico brano di Alois Alzheimer che
descrive clinicamente lo stato della paziente Auguste Deter: “Una donna di 51 anni ha mostrato
gelosia verso suo marito come primo segno rilevante della malattia. Presto si è
potuta notare una perdita di memoria rapidamente ingravescente. Non era in
grado di orientarsi nel suo appartamento. Portava oggetti avanti e indietro e
li nascondeva. A volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad
urlare”[3]. Ricordiamo che Alzheimer con queste parole
introdusse il caso paradigmatico di una donna ammalata di demenza presenile con
sintomi psicotici, che morì nel giro di pochi anni: nei casi familiari della
malattia la prognosi è ancora la stessa. A beneficio dei lettori non specialisti si propone di
seguito un’introduzione alla demenza neurodegenerativa alzheimeriana tratta da una monografia scritta in
passato per i membri della nostra società scientifica e presentata mediante
vari brani nella sezione “In Corso” del sito[4], prima
di esporre in sintesi il lavoro di Daniel Di Risola e colleghi, qui recensito.
Nel
1906 il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer studia al microscopio preparati
istologici ricavati da sezioni sottili del cervello di una sua paziente affetta
da una complessa e invalidante malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave
forma di deterioramento mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente
ingravescente. Descrive due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi
della malattia: le placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione
di questi dati, nel 1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum movens patogenetico, le placche
amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[5].
All’originario
lavoro di Alzheimer, Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche
molto dettagliate[6] e i suoi studi negli anni successivi
(1910-1911) consentirono la comprensione di alcuni rilevanti aspetti clinici e
patologici, così che la malattia detta in Germania “morbo di Alzheimer”, divenne
nota in Italia come “morbo di Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista Kraepelin
la ritenne una forma grave e precoce di demenza senile, secondo il concetto di
senilità precoce di Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva autonomia
nosografica costituendo la nuova categoria diagnostica della malattia di
Alzheimer[7].
Anche
se l’identificazione di questa nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò
l’interesse di neurologi e ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista
solo come una curiosità medica perché rarissimamente diagnosticata. Per
decenni, le ipotesi sulla sua eziologia e le opinioni sulle caratteristiche
della patologia e della clinica hanno ispirato filoni di ricerca ed acceso
dibattiti, senza però migliorare la conoscenza e la comprensione dei processi
alla base di questa grave ed inesorabile perdita delle funzioni mentali e più
in generale cerebrali, che termina con esito infausto.
“Si
può dire che il primo reale progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner dell’Università della California a San Diego riuscì
ad isolare dal materiale amiloide delle placche un corto peptide, costituito da
40 o 42 aminoacidi, cui si diede il nome di peptide β-amiloide (Aβ).
Poco
tempo dopo quattro diversi gruppi di ricerca sequenziarono il gene che codifica
la proteina da cui il peptide origina. Così come erano parse sorprendenti le
piccole dimensioni del peptide in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza
extracellulare, sorpresero le grandi dimensioni della proteina codificata dal
gene di recente individuato. Il peptide beta-amiloide era un frammento di una
macromolecola di membrana cui si diede il nome di precursore del peptide beta
amiloide o beta-amyloid precursor protein o βAPP. […]
Nel
1991, studiando il DNA di una famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un
gruppo della St. Mary’s Hospital Medical
School di Londra localizzò il gene per la βAPP sul cromosoma 21 e dimostrò
che la mutazione puntiforme si verificava proprio nel frammento di DNA
codificante il polipeptide precursore. All’incirca in quello stesso periodo
altri studi indicavano che in famiglie in cui ricorreva la malattia di
Alzheimer il cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto. Questa
correlazione era molto suggestiva perché da tempo era noto che i soggetti
affetti da sindrome di Down o trisomia 21, quando vivono sufficientemente a
lungo, invariabilmente sviluppano i sintomi di una patologia simile
all’Alzheimer.
L’idea
che il peptide Aβ fosse all’origine della cascata di eventi determinante
la progressione della malattia era ormai opinione dominante, nota come “teoria
dell’amiloide”, e i dati genetici sembravano confermarla in pieno. Ben presto
si formò una vera e propria scuola di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in
Dennis Selkoe uno dei maggiori esponenti. […]
Nel
1992 Allen Roses sfidò l’ortodossia β-amiloide: annunciò di aver
identificato un gene di suscettibilità per lo sviluppo delle forme più
frequenti, ad insorgenza nell’età media e avanzata. Si trattava del gene per
l’allele “ε4” dell’apolipoproteina E (APOE), cioè una variante di una
lipoproteina che trasporta il colesterolo. […]
La
teoria dell’amiloide sembrò avere una conferma decisiva nel 1995 quando Peter
H. St George Hyslop, con i suoi collaboratori, clonò due geni cui diede il nome
di presenilina 1 e presenilina 2. Le alterazioni di questi
geni erano state messe in relazione con una forma della malattia estremamente
aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la sintomatologia talvolta
esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto grave. […]
Nel
1998 Rudolph Tanzi, genetista di Harvard, ritenne di aver identificato sul
cromosoma 12, in un gene detto A2M, un altro importante fattore di suscettibilità:
la sua tesi era che questo gene fosse in grado di determinare il tasso di
produzione di β-amiloide da parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non
solo da coloro che dubitavano del valore della ricerca sui geni di
suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses, il quale aveva lavorato a quel
locus del cromosoma 12, addirittura registrando un brevetto sull’A2M e,
successivamente, si era convinto della mancanza di un legame diretto con la
patologia. […]
Il
precursore della proteina β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie
cellulari ed è una proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770
aminoacidi. Le due estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel
citoplasma e l’altra, la più lunga, nello spazio extracellulare. Da
quest’ultima proviene il peptide beta-amiloide.
La
funzione fisiologica non è nota[8] ma si sa che va incontro ad un
processo di scissione enzimatica secondo due diverse modalità. […]
La
prima modalità prevede una tappa
catalizzata da un enzima detto α-secretasi,
in grado di scindere dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo
enzima, la γ-secretasi, la cui
azione dà origine ad un frammento fisiologico, definito p3.
Questa
modalità, ossia la scissione mediante
α-secretasi/γ-secretasi, dà sempre luogo ad un peptide non
patogeno.
La
seconda modalità differisce per
l’enzima che interviene nella prima tappa, in questo caso è la β-secretasi: uno dei frammenti
prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP, sottoposto all’azione
della γ-secretasi dà luogo alla formazione del peptide β-amiloide[9]. La successione
beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40 aminoacidi e,
per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa piccola frazione
sembra in grado di innescare la successione di eventi che determina la
formazione delle placche”[10].
Queste
nozioni costituiscono ormai una base consolidata delle conoscenze patologiche
sul gravissimo e ancora inguaribile processo neurodegenerativo. Riportiamo ora,
qui di seguito, elementi di più recente acquisizione tratti dall’introduzione a
uno studio presentato lo scorso anno[11].
La malattia di Alzheimer, la
più comune[12] e grave demenza neurodegenerativa, costituisce una categoria nosografica definita
in base ad elementi patogenetici e clinici comuni, ma in realtà costituita da
forme diverse per eziologia, che può essere esclusivamente genetica (forme
familiari) o multifattoriale e prevalentemente indeterminata (forme sporadiche);
per esordio, che può essere precoce, presenile[13], nell’età media della vita oppure in età senile o più spesso nella tarda
senilità; e per fisiopatologia: può presentare entrambi i contrassegni istopatologici
descritti da Alzheimer e Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli
neurofibrillari intraneuronici, oppure uno solo dei due,
presentandosi come tipo con placche soltanto (plaque
only type) o come
taupatia senza placche evidenti associata a demenza[14].
La maggior parte dei ricercatori che
ritiene irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché
identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici,
si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della progressione
in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum movens etiologico,
vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto biochimico fra evento causale
e innesco della patogenesi un valore di conoscenza chiave per giungere a
trattamenti (ed eventuali programmi di prevenzione) specifici per le singole
forme.
In ogni caso, lo studio della
genetica è importante perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono
una esigua minoranza, anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo
non irrilevante del genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca
condotta soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle anomalie
molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la comprensione
dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni di notevole
interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St. George-Hyslop e colleghi,
in pazienti affetti da forme ereditarie della malattia, di geni codificanti versioni
alterate della APP (amyloid precursor protein)
localizzati sul cromosoma 21 accanto al gene βA. Questa scoperta ha
fornito una spiegazione per le alterazioni alzheimeriane – in passato
interpretate come invecchiamento precoce – che si rilevano nel cervello di
tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni:
avendo tre copie del cromosoma 21, producono amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito
di spiegare quel dato patologico interpretato come segno di invecchiamento
precocissimo del cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile causa
solo di una piccolissima frazione di casi eredofamiliari
di malattia di Alzheimer che, a loro volta, costituiscono una piccola parte del
totale. In altre stirpi familiari studiate per la presenza di casi ad ogni
generazione, ereditati verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico
dominante, sono state identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato
sul cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari,
e della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota
degli altri casi ereditari[15].
La presenza di amiloide aberrante da
sola non è in grado nel resto della popolazione di causare la malattia
neurodegenerativa, così si sono studiati i geni associati quali fattori di rischio.
Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[16], un regolatore del metabolismo lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide
delle placche neuritiche della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado
di modificare il rischio di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare,
fra le varie isoforme della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente
allele ε4 sul
cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia.
Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro
che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio
di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato
che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette
da malattia di Alzheimer.
Anche se
decisamente più raro delle varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2 conferisce
uguale probabilità di sviluppare la malattia. Nelle forme sporadiche, questo
polimorfismo è responsabile di un difetto di fagocitosi dell’amiloide che
avviene nel normale ciclo fisiologico, contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi
ipotizzati per la partecipazione delle varianti di questo gene alla patogenesi
non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra
variazione genica, implicata sicuramente in forme familiari della malattia di
Alzheimer, è stata registrata presso il sito dell’ubiquilina
1, cioè UBQLN1 codificante una proteina che interagisce con PS1 e PS2,
oltre a partecipare alla degradazione proteasomica.
L’importanza
dello studio della genetica si può desumere dagli importanti elementi di
conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di interi alberi genealogici di
pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di
questa patologia si cita sempre il caso di Auguste Deter, la paziente che morì
a soli 55 anni e dal cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali
scoprì placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un secondo
caso, pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato
dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto dal
plaque only type[17]. Nel suo cervello, oltre ai segni generici di encefalopatia atrofica, si
rilevavano solo gli accumuli macroscopici di amiloide extracellulare, denominati
da Alzheimer placche senili, secondo la terminologia anatomopatologica
dell’epoca. La ricorrenza della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto
a supporre già a quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i
ricercatori impegnati nella ricerca del primum movens causale della
malattia si dividevano in due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria
della β-amiloide” con capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice
della “teoria della tau”, rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise
di andare alla ricerca dei discendenti Johann per verificare se fra loro vi
fossero ammalati di demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il
profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori
della “teoria della β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia quelli generati dalla scissione
della γ-secretasi con una lunghezza uguale o superiore a 42 aminoacidi,
innescassero tutte le catene di eventi culminanti in degenerazione, apoptosi e
necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano che l’iperfosforilazione
della proteina associata ai microtubuli tau fosse responsabile della
sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e consideravano le placche
amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle sedi di distruzione del
tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda tesi, i casi come quello
di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi neurofibrillari, erano
dovuti a una causa da scoprire, ma sempre intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Regensburg
(Germania) riuscirono a rintracciare i discendenti del secondo paziente di
Alzheimer, ne studiarono il profilo genetico secondo le acquisizioni più
recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero genealogico e poi chiesero l’aiuto
di St. George-Hyslop[18]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario: grazie a numerose tracce
documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti, riuscirono a risalire
lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed elaborarono un fedele albero
delle parentele che al 2007 contava 1403 discendenti. I quattro discendenti
affetti da demenza all’epoca dello studio, la avevano ereditata come un
carattere mendeliano semplice autosomico dominante. Klunemann,
St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni di rischio dominanti” allora
noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire a trovare un allele già
identificato come patologico[19]. Anche se questo studio non identificò la causa genetica dell’Alzheimer di
quella stirpe, contribuì alla demolizione della dicotomia β-amiloide/tau.
Infatti, se il primum movens sono i peptidi βA, in grado di
innescare reazioni che portano nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con
conseguente degenerazione fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi
del corpo cellulare neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica con
gli stessi esiti clinici senza la distruzione della tau? La conclusione
ipotetica della nostra scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a
patologie diverse che non differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche,
sia pure in parte, nella patogenesi.
Per dirimere
queste questioni sarà necessario scoprire i meccanismi molecolari che mediano
gli effetti dei molteplici fattori causali e, visto che le alterazioni
molecolari e i processi patologici finora esaminati si sono rivelati quanto
meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è proceduto attraverso analisi
del trascrittoma, i cui risultati hanno suggerito nuovi progetti di ricerca[20].
Ritorniamo ora
allo studio condotto dal team di ricercatori guidato da Philip L.
De Jager per individuare il ruolo dei diversi tipi
cellulari e definire i processi di interazione che si verificano fra queste
cellule nella patologia alzheimeriana. Come si è già accennato, i ricercatori hanno
seguito l’ipotesi secondo cui la definizione di sottopopolazioni con i loro specifici
microambienti cellulari sottostanti la neuropatologia degenerativa
alzheimeriana e lo sviluppo di demenza da altre cause, potrebbe consentire di entrare
in una nuova dimensione conoscitiva della fisiopatologia della forma di demenza
più grave e diffusa al mondo.
De Jager e colleghi hanno
assemblato una mappa cellulare ad alta risoluzione della corteccia cerebrale durante
l’invecchiamento, usando il sequenziamento RNA da singolo nucleo in 24
individui con uno spettro di differenti caratteristiche clinico-patologiche. Poi
hanno impiegato tale mappa per ricavare inferenzialmente la citoarchitettonica neocorticale
di 638 soggetti profilati mediante bRNAseq (bulk RNA
sequencing), realizzando un campione della
dimensione necessaria per l’identificazione di associazioni statisticamente
significative. Su questa base, De Jager e colleghi
hanno scoperto varie popolazioni cellulari associate alla malattia di
Alzheimer, fa cui: 1) un sub-tipo di interneurone inibitorio rilasciante
somatostatina; 2) varie popolazioni di oligodendrociti corrispondenti a stati
funzionali.
Il passo successivo del lavoro sperimentale è consistito
nell’identificazione di una rete di “comunità multicellulari” ciascuna delle
quali composta da sub-popolazioni coordinate di cellule nervose,
cellule gliali e cellule endoteliali; l’analisi di queste comunità
cellulari ha consentito ai ricercatori di identificarne due alterate in modo
evidente e caratteristico nella malattia di Alzheimer.
Dopo queste importanti acquisizioni, Anael Cain, De Jager e colleghi hanno adoperato le analisi di mediazione
per definire il valore prioritario dei cambiamenti cellulari che possono
contribuire al declino cognitivo.
In conclusione, si può osservare che il lavoro di
indagine strutturale della corteccia cerebrale in corso di invecchiamento, condotto
dagli autori dello studio qui recensito, costituisce uno schema utile e una
guida efficace per valutare i microambienti cellulari caratterizzanti la
neuropatologia della degenerazione alzheimeriana e distinguerli da quelli
associati allo sviluppo di demenza da altre cause.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-24 giugno 2023
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 17-06-23 Scoperto nella malattia di Alzheimer uno stato
protettivo della microglia.
[2] Note e Notizie 25-06-22 La malattia di Alzheimer potrà essere trattata con ERp57. Per lo studio su ERp57 si rinvia alla lettura di
questa nota, perché in questo testo non è stata ripresa la recensione dello
studio di Di Risola e colleghi del giugno 2022.
[3] Note e Notizie 00-03-07 I
discendenti di Johann, paziente di Alzheimer. Dopo il caso celeberrimo di
Auguste D., Alzheimer pubblicò un secondo caso, quello di Johann F. in cui era
assente la degenerazione neurofibrillare (plaque
only type); si veda la
nostra interessante recensione dello studio dei discendenti affetti da questa
forma ereditaria di malattia di Alzheimer.
[4] Perrella G., La Malattia di
Alzheimer – un’introduzione.
BM&L-Italia, Firenze 2004.
[5] Alzheimer A., Ueber eigenartige Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für
Psychiat. 1907.
[6]
Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist.
und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.
[7]
Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.
[8] Numerosi studi hanno fornito nel
frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli fisiologici
della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note e Notizie”
di questi anni.
[9] Su questa base si impiegano in
terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase cleaving enzyme).
[10] Perrella G., op. cit., idem.
[11] Note e Notizie 28-11-20 Nella
malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.
[12] La prevalenza di 10.800 su 100.000
fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in tutto il
mondo.
[13] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[14] L’Adams e Victor’s, ossia
l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è superata la
distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata in passato
come demenza presenile perché la prima paziente di Alois Alzheimer aveva
solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa si diagnosticavano
come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce) propone di
considerare related but
separable le varie forme eredofamiliari
finora accertate e descritte (Adams e Victor’s Principles of Neurology by
Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non tutte le
volte che si rileva un marcato declino cognitivo in età avanzata, con punteggi
dei test corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla grave patologia
neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di Alzheimer: il
trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai coniugi
Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o sistemi
equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei casi non
dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche indistinguibili
da quella della malattia di Alzheimer possono presentare la paralisi sopranucleare
progressiva, la malattia a corpi di Lewy, la degenerazione cortico-basale, la
malattia di Pick (ossia la degenerazione lobare fronto-temporale) e altre patologie
neurodegenerative non alzheimeriane.
[15]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New
England Journal of Medicine
367: 367, 2012.
[16] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la dettagliata
documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle conoscenze attuali sul
ruolo di Apo E ε4.
[17] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[18] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[19] Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[20] Si veda Note e Notizie 24-04-21
Metaboliti noti con ruoli causali nella malattia di Alzheimer.